sabato 25 aprile 2020

Tucidide e la peste.

In queste terribili giornate immerse nella pandemia da coronavirus. il pensiero va alle narrazioni antiche della peste ed in particolare a quella contenuta  nel II libro  delle" Storie .

Tucidide dedica infatti  una sezione importante del II libro delle sue Storie all’irrompere della peste in Attica, nell’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.). 

Il diffondersi dell’epidemia è favorito dalle particolari condizioni del momento: tutta la popolazione dalle campagne si trova ammassata in città o lungo le mura, perché Pericle ha stabilito che non è opportuno combattere con i nemici spartani in pianura. Gli effetti sono subito molto gravi, anche perché nessuno sembra in grado di frenare la malattia:

Ecco il testo:

«in nessun luogo si aveva memoria di una pestilenza così grave e di una tale moria di persone. Infatti non erano in grado di fronteggiarlo né i medici, che all’inizio prestavano le loro cure senza conoscerne la natura, e anzi erano i primi a morire in quanto più degli altri si accostavano agli infermi, né nessun’altra arte di origine umana; ugualmente le suppliche nei santuari, il ricorso a oracoli e altre cose del genere, tutto si rivelò inutile; e alla fine, sopraffatti dalla sventura, rinunciarono a qualsiasi tentativo». (47, 3-4).

Ed ancora:

«Poiché non c’erano case disponibili ed essi vivevano in tuguri che la stagione rendeva soffocanti, la strage avveniva in piena confusione: i corpi dei morti erano ammucchiati gli uni sugli altri, e si vedevano uomini mezzo morti rotolarsi per le strade e intorno a tutte le fontane spinti dal desiderio di bere. I santuari in cui avevano preso dimora erano colmi di cadaveri, dal momento che morivano lì stesso: sotto l’incalzare violento del male, non sapendo che cosa sarebbe avvenuto di loro, gli uomini divennero indifferenti in eguale misura nei confronti delle cose sacre e di quelle profane. Tutte le usanze funerarie precedentemente in vigore furono sconvolte e ciascuno provvedeva alla sepoltura come poteva».(52, 2-4).

Similia similibus con l'attuale situazione?

I tempi sono diversi, ma anche in quel caso vi fu una moria di morti soprattutto tra i medici che non conoscevano la natura del male.


lunedì 20 aprile 2020

La Madonna del Belvedere.

 
                                                   

                                                                     Caratteristiche

La Madonna del Belvedere è un dipinto, eseguito nel 1506, ad olio su tavola, da Raffaello Sanzio  (1483-1520), ed ora conservato Kunsthistorisches Museum di Vienna.

L'opera è generalmente indicata con uno dei due dipinti che Raffaello fece per umanista e mecenate fiorentino Taddeo Taddei  (1470-1529).

Nella prima metà del XVII secolo , il dipinto venne acquistato dall'arciduca Ferdinando Carlo d'Austria  che la portò nel suo palazzo a Innsbruck. Nel 1663  fu trasferita nel Castello d'Ambras e nel 1773  nelle collezioni imperiali a Vienna, presso il palazzo del Belvedere che le diede il nome con cui è tradizionalmente nota. 

                                                                     Descrizione

La scena del dipinto è ambientata in un ampio paesaggio lacustre, dove si distinguono tre personaggi sacri, fra i quali vi è una forte intesa sentimentale, sottolineata dagli sguardi e gesti incrociati carichi di grande umanità.

 Le loro figure sono costruite secondo un'efficace composizione piramidale, ricca di profondi significati allegorici, costituita da:

al centro: Maria  seduta, presenta lineamenti fisionomici dolci e delicati, i capelli raccolti che lasciano scoperti il collo e le spalle, con entrambe le mani sorregge tra le sue gambe Gesù Bambino , il quale sembra muovere i suoi primi passi, mentre afferra la croce  del piccolo San Giovannino. 

La Madonna ha una posa contrapposta, con la gamba distesa lungo una diagonale e con il busto ruotato verso destra, ma la testa e lo sguardo rivolti in basso a sinistra, sui due bambini.

A sinistra:San Giovannino  è raffigurato con i capelli ricci, inginocchiato, mentre offre la croce (suo tipico attributo) al gioco di Gesù Bambino.


sabato 18 aprile 2020

La Madonna della Seggiola.

                                                           





                                                    Dati caratteristici

La Madonna della Seggiola, opera mirabile di Raffaello, si trova a Palazzo Pitti presso la Galleria Palatina a Firenze. 

Il dipinto, di proprietà della famiglia de’ Medici già dalla prima metà del Cinquecento, fu forse commissionato da papa Leone X e inviato alla sua famiglia a Firenze.

                                                            

                                                    Descrizione

 Questo dipinto di Raffaello risale al 1514 e fu dipinto dall’artista all'età di 31 anni.

 La composizione circolare e le posture della Madonna e di Gesù Bambino sono i principali elementi del suo successo. 

Maria è seduta su di una seggiola in un ambiente domestico, tiene in braccio Gesù che ricorda un bambino del popolo ed osserva direttamente il fedele con uno sguardo molto intenso.

Questa Vergine, dallo sguardo fisso sull’osservatore, ha da sempre colpito l’immaginazione del popolo e degli scrittori. 

Secondo una leggenda abbastanza diffusa, Raffaello avrebbe tratto ispirazione da una giovane contadina che cullava il proprio bambino nei pressi di Velletri. 

Secondo altre fonti, uno scrittore tedesco, colpito dall’opera, avrebbe scritto una favola nella quale si narrava come il quadro fosse il ritratto della giovane figlia di un vinaio con i suoi due bambini disegnata da Raffaello sul coperchio di una botte.


domenica 8 dicembre 2019

Grandi filosofi a tavola.

Anche i filosofi  e pensatori amano mangiare bene e non è un caso che alcuni filosofi spesso nelle loro opere menzionino i piatti preferiti.

Queste informazioni desunte dalle loro biografie sono utili in fondo per meglio conoscere il loro pensiero-

Ecco una breva rassegna:

I Pitagorici teorizzavano il vegetarianesimo  come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali.Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave.

Platone non era insensibile al mangiar bene: dilui si sa che amava olive e fichi secchi.

Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari.

 Epicuro, invece era proverbialmente famoso per l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute… Tant’ che se oggi diamo dell’epicureo a qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri… Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà.

Jean-Jacques Rousseau rubò in diverse occasioni… i famosi grissini torinesi, dei quali andava ghiotto. 

Immanuel Kant fu sicuramente quello che definiremmo oggi una “buona forchetta”. In particolare, quando assaggiava qualcosa di nuovo che gli piaceva, non mancava di farsi dare la ricetta. Tra le sue abitudini alimentari più bizzarre ricordiamo che, quando mangiava la carne, la masticava a lungo in modo da ricavarne il succo, che poi ingoiava, mentre la parte solida non veniva ingoiata. Non era di suo gradimento la cucina particolarmente sofisticata: preferiva quella semplice e alla buona. A differenza delle abitudini moderne, tutti i suoi pasti duravano molto, poiché non mangiava velocemente e non gli piaceva alzarsi dalla tavola subito dopo aver finito il pasto. Non mangiava mai da solo, poiché sosteneva che mangiare da soli è nocivo e che c’è sempre bisogno di una buona compagnia, alla quale faceva recapitare sin dal mattino l’invito a pranzo. Preferiva che i commensali fossero da tre a nove: “non meno delle Grazie e non più delle Muse”. Un aneddoto racconta che, un giorno, ritrovandosi da solo, disse al proprio cameriere di invitare il primo passante a pranzare con lui. Solamente i suoi pranzi erano particolarmente lunghi ed elaborati; la sua colazione, invece, che consumava alla cinque del mattino, consisteva soltanto in una o due tazze di tè.

Pare aggiungesse la senape ad ogni alimento e andasse matto per il baccalà e per il formaggio olandese. Anche Hegel pare che non disdegnasse il bere, preferendo però il vino alla birra: addirittura, per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, egli spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino… Arthur Schopenhauer, dal canto suo, consumava i suoi pasti generalmente al “Ristorante Inglese”: cominciando a mangiare, metteva sulla tavola, dinanzi a se, una moneta d’oro, che riponeva in tasca a pasto finito. Un cameriere, senza dubbio indignato, gli chiese alla fine il significato di quell’invariabile cerimonia. Schopenhauer rispose di aver promesso a se stesso di lasciar cadere la moneta nella cassetta dei poveri il primo giorno in cui avesse udito gli ufficiali inglesi, che pranzavano nel ristorante, discorrere di qualche cosa che non fosse di cavalli o di donne o di cani… 

Ludwig Feuerbach, in  una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. L’uomo è ciò che mangia: in tedesco, “der Mensch ist was er isst”. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo.

Karl Marx sembrava invece attento al bere più che al mangiare: in particolare, egli era un gran bevitore di birra, specie nei suoi anni universitari. 

Friedrich Nietzsche ebbe una particolare predilezione per uova, noci, riso, patate, pane, mele, biscotti, latte e soprattutto salsicce. Potrebbe sembrare apparentemente alquanto poco usuale che, l’ideatore del Superuomo avesse anche una passione travolgente per il cibo e per alcuni prodotti in modo particolare. Nel suo ultimo anno di lucidità, il 1888, spesso accostava “bistecca, omelette, prosciutto e tuorli d’uovo crudi con pane”. La sua dieta, come si evince, era tutt’altro che “in bianco”. L’alimento, però, per il quale aveva una vera e propria forma di attrazione erano le salsicce, che si faceva inviare regolarmente per posta dalla madre. La cucina piemontese è la mia preferita”, scrive in Ecce homo, la sua autobiografia. 

Dal canto suo, Ludwig Wittgenstein al cibo non s’interessava affatto: l’importante era che in tavola trovasse sempre lo stesso piatto…

Con un’immagine alquanto efficace, Ernst Bloch dice che “l’uomo non vive di solo pane, specialmente quando non ne ha”: fuor di metafora, è nei momenti più desolati e difficili (le carestie, le guerre, ecc) che si fa sentire con più forza la spinta a trascendere il presente e a sperare in un futuro migliore.






























sabato 26 ottobre 2019

La teleologia.

E' un termine ricorrente nei manuali di filosofia sin dai tempi del pensiero greco da non confondere con la teologia.
E' invece poco conosciuto dall'uomo non particolarmente addottrinato.
La teleologia (dal greco telos, "fine" o "scopo") è la dottrina filosofica del finalismo;  è il credere che alla base di tutto  vi sia un progetto, uno scopo, una direttiva, un principio o una finalità nelle opere e nei processi naturali.
Mentre la scienza investiga leggi e fenomeni naturali, la teleologia si preoccupa invece dell'esistenza di un principio organizzativo dietro queste leggi e fenomeni naturali.
In ambito teologico, la teleologia cerca di giustificare l'esistenza di Dio come artefice di tutto ovvero come creatore ed architetto dell'universo.
Molte sono le teorie teleologiche che hanno trovato un forte impulso con Kant nella critica del giudizio nonchè nell'ottocento con Hegel e sempre più verso la fine del XX secolo con la nascita di nuove teorie cosmologiche finalistiche

mercoledì 26 dicembre 2018

"La donna con il bambino": nel presepio napoletano è la mamma di Stefano.

Tutti sanno che il 26 dicembre è la ricorrenza di Santo Stefano,il protomartire del Cristianesimo  di cui si parla negli Atti degli Apostoli di San Luca.
Ebbene la ricorrenza si può collegare, ovviamente in termini profani, ai riti presepiali napoletani.
 Diffusissima sul presepe, per lo più in prossimità della grotta infatti appare una  donna col bambino tra le braccia
 La tradizione popolare narra di una vergine chiamata Stefania che, saputo della nascita del Redentore, volle recarsi alla grotta,ma gli angeli non permettevano alle donne non sposate di recarsi a visitare la Madonna.
. Secondo un Vangelo apocrifo infatti la visita alla Madonna era permessa solo alle donne sposate o con prole. Stefania era vedova e senza figli, pur desiderandone; per poter incontrare Maria, sua cara amica, decise così di avvolgere un sasso con un panno, la cui forma ricordava vagamente quella di un bambino in fasce.
 Quando la Madonna la vide si intenerì e le annunciò che a breve le sue sofferenze sarebbero terminate. Ed infatti il sasso, incredibilmente, cominciò a starnutire e si trasformò in neonato. Di qui la festa di Santo Stefano il giorno successivo al Natale.
Secondo un'altra versione popolare Stefania prese una pietra, l'avvolse nelle fasce come se si trattasse di un bambino e, ingannando gli angeli, riuscì a raggiungere la grotta.
Miracolosamente, la pietra starnuti e si trasformò in un bambino che ebbe nome Stefano e così, da allora, il 26 dicembre, si celebra la festa di Santo Stefano.
La donna con il bambino si presta anche ad una lettura storico sociale..
E' la tipica popolana partenopea che camminava, seguita dalla sua numerosa prole per le vie della città in continua ricerca di un'occupazione con cui poter sfamare la famiglia.
E il simbolo dunque della maternità.